di Irene Ponzo
Torino, come molte aree d’Italia, soffre di una bassa partecipazione dei gruppi sociali più svantaggiati e dei giovani alla progettazione del futuro della città. Queste fasce di popolazione si mobilitano sulla protesta, come è avvenuto con il Movimento Cinque Stelle e, più di recente, con le Sardine, ma il loro contributo si disperde nel momento in cui si passa alla fase propositiva.
La partecipazione, infatti, è generalmente connessa alla percezione di avere uno stake, un interesse nello sviluppo della città. Se ogni cittadino ha per definizione degli stakes in quanto abitante e fruitore di servizi, è evidente come questi interessi non siano a oggi sufficienti per favorire la partecipazione allargata. Gli stakes diventano infatti fattori di mobilitazione proattiva quando connessi a una progettualità individuale e collettiva. Senza la prospettiva di un futuro potenzialmente migliore del presente, ci si limita alla difesa di ciò che si ha e alla protesta contro lo status quo. In un contesto di prolungato declino economico metropolitano e di perdurante abbandono delle periferie torinesi, la partecipazione alla progettazione cittadina rischia di apparire a molti un’idea astratta, lontana. Un primo passo per favorire la partecipazione dei residenti di tutte le estrazioni sociali e dei diversi territori dell’area metropolitana, specialmente dei più giovani, può dunque essere quello di sostenere lo sviluppo di micro-progettualità condivise e, con esse, sollecitare la costruzione di interessi tangibili e di prospettive percepibili di sviluppo personale e collettivo.
Un possibile ancoraggio di tali micro-progettualità potrebbe essere rappresentato dalla realizzazione di mini-hub di produzione di beni e servizi negli spazi inutilizzati dei diversi territori torinesi, dove i giovani possano sperimentarsi ed eventualmente fallire senza compromettere il loro futuro, dove possano avviare un’attività sostenuti da una formazione continua e dal contenimento dell’investimento iniziale grazie alla condivisione di infrastrutture e servizi (macchinari, hardware e software informatici, ricerca e sviluppo, logistica, comunicazione, marketing, contabilità e gestione finanziaria, fund raising, ecc.), dove abbiano l’opportunità di confrontarsi e creare “comunità produttive”, che possono potenzialmente trasformarsi in “comunità di cittadini” capaci di elaborare idee comuni di futuro e di città.
Accanto ai progetti di ampio respiro, che non possono mancare in una città come Torino, diventa altrettanto importante lavorare su spazi e progetti capillari e accessibili che ricuciano un tessuto sociale e urbano sempre più frammentato e sfilacciato e creino le pre-condizioni per una partecipazione diffusa.
Una città in cui i giovani rischiano di essere una frangia sociale marginale non ha futuro. Oltre ad alimentare le fila di un’emigrazione giovanile fonte di brain e skill waste (e conseguente dispersione delle risorse pubbliche investite nell’educazione). Per renderci conto della gravità della situazione, dobbiamo pensare che in provincia di Torino i cosiddetti NEET si stima ammontino a oltre 60 mila giovani tra i 15 e i 29 anni (2018, Istat). Questi numeri non consentono di classificarli come una categoria sociale residuale o un sotto-prodotto del nuovo mercato del lavoro, bensì ci costringono a trattarli come rappresentanti di una condizione esistenziale ordinaria nella nuove generazioni. Questi giovani rischiano inoltre di rappresentare un vulnus spesso sottostimato delle nostre democrazie: l’unica minaccia che i fondatori delle democrazie occidentali temevano quanto e più del monarca assoluto erano i cittadini senza stakes e il voto senza partecipazione – senza bisogno di scomodare Tocqueville, basta ricordare come gli iniziali criteri di censo, sesso e alfabetizzazione nella definizione dell’elettorato fossero concepiti come un antidoto a tali minacce, benché a lungo perpetuati per ragioni molto meno nobili. Nel mondo contemporaneo, dove l’antidoto non può essere l’esclusione, non sono mancate le voci, dai padri costituenti italiani a Norberto Bobbio, che hanno ricordato come la democrazia sia strettamente connessa a un’eguaglianza non soltanto formale, ma sostanziale. La crescente fortuna del populismo e dell’autoritarismo ci ha offerto la prova del nove che ci saremmo volentieri risparmiati. Se poi le diseguaglianze economico-sociali e di partecipazione si sovrappongono a quelle etniche, la situazione si complica ulteriormente: la radicalizzazione di persone nate e cresciute in Europa ci ha mostrato come i giovani, lasciati senza prospettive, si affidino al migliore venditori di sogni, oggetti che noi non sappiamo più fabbricare, finendo ignominiosamente battuti da una raffazzonata banda di estremisti da quattro soldi.
Di fatto, i giovani non mancano di progetti ma, in assenza di una dotazione adeguata di risorse economiche e relazionali, in un mercato del lavoro frammentato e in costante mutamento, con istituzioni educative e corpi intermedi incapaci di fornire chiavi di lettura efficaci della realtà e di attrezzare le nuove generazioni per affrontare le mutate dinamiche economiche e sociali, questi progetti sono difficili, se non impossibili da realizzare. Anziché forza vitale, i progetti dei giovani divengono così fonte di frustrazione, disistima e disillusione, si finisce per non sentirsi protagonisti delle propria vita e tanto meno della città, si abbandona la convinzione che la propria voce valga la pena di essere ascoltata.
Se i giovani non si sentono titolati a contribuire allo sviluppo della città e non rispondono quindi agli appelli che li chiamano a partecipare, tocca andare da loro, sotto casa, per convincerli del contrario. Gli interstizi della città assumono così un valore strategico. Il passato industriale ci ha lasciato in eredità edifici e spazi dismessi di grandi dimensioni, in parte sapientemente riconvertiti negli anni, facendo di Torino un esempio a livello mondiale. Senza rinnegare o dismettere quel modello e, anzi, facendo tesoro di quell’esperienza, i mini-hub si propongono di agire sugli spazi interstiziali del tessuto urbano, anch’essi progressivamente abbandonati a seguito del declino demografico della città e, più di recente, a causa della crisi economica in corso e della conseguente chiusura di molte attività produttive e commerciali. Allo stesso tempo, i mini-hub sono lontani dai processi di gentrification che espellono le fasce deboli di popolazione per lasciare spazio a quelle più abbienti. Al contrario, sono luoghi dove i giovani di tutte le estrazioni sociali possono trovare posto e sviluppare progetti, connessi con la città ma capaci allo stesso tempo di muoversi in un mondo ormai irreversibilmente globale.
I settori nei quali è possibile sviluppare i mini-hub sono numerosi: ICT, produzione artigianale, design, comunicazione, cura della persona, formazione, musica, sport e tempo libero, ecc. Possono inoltre trovare applicazione in campo sociale, dai gruppi di co-houser, alle attività di volontariato, alle iniziative culturali che, anche se no-profit, richiedono competenze manageriali e tecniche, spazi e infrastrutture organizzative. Si tratta di un modello di intervento scalabile, dove i settori e i territori interessati possono essere limitati quanto molto estesi.
Se i mini-hub possono richiamare alla mente le vecchie botteghe che un tempo affollavano i cortili interni torinesi, essi devono necessariamente essere oggetti contemporanei. Per questa ragione, un tratto qualificante dei mini-hub dovrebbe essere la loro sostenibilità a 360 gradi.
Appare evidente come le competenze necessarie per realizzare i mini-hub siano molteplici ed elevate. Si tratta quindi di un progetto che non chiama in causa solo i giovani: gli adulti, anziché divenire “tutori” di giovani troppo sovente sospettati di essere “incapaci”, sono chiamati a diventare enablers, attori capacitanti delle nuove leve di torinesi. Non si tratta di elaborare contenuti – che invece dovranno venire dai giovani, anche attraverso momenti di co-progettazione – bensì di mettere a disposizione mezzi, ossia competenze e reti. Accanto ai professionisti retribuiti, si può mobilitare il lavoro volontario (con possibile impiego di professionisti in pensione in una prospettiva di scambio intergenerazionale) o consulenze a titolo gratuito nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa o della collaborazione con le grandi imprese pubbliche.